20/06/2025 21:00

21/06/2025 21:00

GOLEM

testo Amos Gitai e Marie-José Sanselme
regia Amos Gitai
con Bahira Ablassi, Irène Jacob, Micha Lescot, Laurent Naouri, Menashe Noy, Minas Qarawany, Anne-Laure Ségla
musicisti Alexey Kochetkov, Kioomars Musayyebi, Florian Pichlbauer
cantanti Amandine Bontemps, Zoé Fouray, Sophie Leleu, Lucy Page
ricerca Rivka Markovitski Gitai
assistenti alla regia Céline Bodis, Anat Golan, Kelly Claudette
luci Jean Kalman assistente Juliette de Charnacé
suono Éric Neveux
scene Amos Gitai assistente Sara Arneberg Gitai
trucco e parrucco Cécile Kretschmar
costumi Fanny Brouste assistenti Isabelle Flosi e Emmanuelle Sanvoisin
video Laurent Truchot
consulente musicale e direttore del coro Richard Wilberforce
preparazione e gestione sovratitoli Katharina Bader
consulente yiddish Shahar Fineberg
realizzazione accessori, costumi e scenografia ateliers de La Colline
produzione La Colline – théâtre national
responsabile di produzione Audrey Sterlingots
luci Gilles Thomain
suono Valentin  Chancelle
video Alexis Cohen
direttore di scena Morgane Bullet
sarta Angèle Gaspar
trucco e parrucco in tour Jean Ritz
foto di Simon Gosselin
produzione della tournèe internazionale Sorcières&Cie
capo della produzione Véeronique Felenbok
gestione tour Ondine Buvat

produzione  La Colline – théâtre national

si ringrazia il Théâtre du Châtelet e Cécile Trémolières
spettacolo in tedesco, inglese, arabo, spagnolo, francese, ebraico, russo, yiddish
sovratitolato in italiano

spettacolo presentato in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Campania Teatro Festival

Quali sono le nostre armi per sopravvivere alla ferocia delle guerre? Come resistere e reinventarsi?
Amos Gitai torna con un nuovo spettacolo sul Golem: figura leggendaria proveniente da testi cabalistici, il Golem è una creatura di argilla creata per proteggere la comunità ebraica in risposta alle persecuzioni. È una sorta di magia, una specie di composizione, una combinazione matematica, per creare un essere artificiale capace di combattere la natura, i nemici, l’odio, la miseria. Con questa creazione teatrale, ispirata a un racconto per bambini di Isaac Bashevis Singer, a testi di Joseph Roth, Léon Poliakov e Lamed Shapiro, e alle biografie di attori, Gitai sovrappone questo mito alle questioni contemporanee sul rapporto tra creazione e distruzione, tra progresso e disastro, creando una parabola sul destino delle minoranze.
Isaac Bashevis Singer dedica questa storia ai perseguitati, agli oppressi in tutto il mondo, giovani e vecchi, ebrei e gentili, nella folle speranza che il tempo delle accuse ingiuste e dei decreti iniqui giunga un giorno alla fine.
Sceglie come lingua lo yiddish perché «è una lingua in esilio, senza paese, senza confini, una lingua non sostenuta da alcun governo; una lingua che non possiede quasi parole relative ad armi, munizioni, esercizio o pratica militare; una lingua che era disprezzata, sia dai non ebrei che dalla maggioranza degli ebrei emancipati. Per natura, lo yiddish non domina, non dà la vittoria per scontata. Non esige, non comanda, scivola, si insinua clandestinamente tra i poteri di distruzione. È una lingua di un’umanità piena di timore e speranza. In senso figurato, lo yiddish è la lingua saggia e umile di tutti, la lingua di tutta l’umanità nella paura e nella speranza.
Era la lingua dei sognatori e dei cabalisti. Il ghetto non era solo un rifugio per una minoranza perseguitata, era anche il luogo in cui si faceva la grande esperienza dell’autodisciplina e dell’umanesimo, nonostante tutta la brutalità che lo circondava. C’è ancora una ragione per non dimenticare lo yiddish, ed è questa: certo, lo yiddish è una lingua morente, ma è l’unica lingua che parlo bene. Lo yiddish è la lingua di mia madre, e una madre non muore mai veramente».
Sul palcoscenico si dispiega un vero e proprio mosaico sensoriale di storie e testimonianze, portato da una compagnia cosmopolita di attori e musicisti con lingue, origini e tradizioni plurime.

Origini. Genesi di un Golem – di Amos Gitai – da PERSEO La Sfida Del Teatro (maggio 2025)

Sintesi e traduzione a cura di Gabriella Rammairone del capitolo pubblicato in
Stefano Boeri – Amos Gitai, A private glossary, Rizzoli, 2024

Mia madre Efratia era nata in terra d’Israele nel 1909. Rientrata in Palestina quando i genitori decisero di lasciare la Russia zarista per partecipare alla nascita della nuova società ebraica, smise di essere una donna della diaspora ma non era israeliana, in quanto lo stato d’Israele ancora non c’era. Era una donna ebrea, nell’accezione arcaica, alla ricerca di un proprio senso di appartenenza come tutti quelli della sua generazione che avevano vissuto la stessa esperienza. Il loro riferimento era la Bibbia, che era stata il collante dell’esistenza degli ebrei della diaspora, il comune territorio dello spirito, ma essendo laici e socialisti, guardavano esclusivamente ai brani biblici che narrano eventi storici avvenuti in un territorio circoscritto, usando la geografia per definire la propria identità.
In quel clima culturale Efratia, un’intellettuale che aveva vissuto a Vienna alla fine degli anni ‘20 e nutriva un profondo interesse per la psicoanalisi, cominciò a lavorare come maestra in una scuola elementare di Haifa. Insegnava teologia mettendo in pratica la sua visione laica, organizzando anche degli spettacoli teatrali con le scenografie di mio padre Munio, architetto del Bauhaus. Per Efratia, lo studio della Bibbia era un’esperienza filosofico-letteraria, una meditazione etica sulla storia. Al suo funerale, un suo ex alunno mi raccontò che durante una lezione le aveva chiesto perché Adamo fosse stato espulso dal Giardino dell’Eden per un peccato che aveva commesso prima di essere in grado di distinguere tra bene e male e lei colse l’occasione per far lavorare la classe per tutto il semestre sul tema della eventuale sindacabilità del giudizio divino.
Quando avevo sei o sette anni mi leggeva le storie dell’Antico Testamento, cosa che ha lasciato in me un segno indelebile. Il libro di Ester e il libro di Rut sono profondamente legati al pensiero e alla società che prendevano forma in quel periodo. D’estate, nei kibbutz, si tenevano letture collettive del libro di Rut per la festa di Shavuot, perché la storia narra che Rut incontrò Booz nei campi intorno a Betlemme nella stagione del raccolto. Era un modo per attualizzare il significato del testo biblico collegandolo ai cicli dell’agricoltura. Il libro di Ester, che racconta le origini della festa di Purim, veniva letto a fine autunno. Quelle esperienze, la solennità di quelle cerimonie in cui si condivideva la lettura di testi arcaici integrandoli nel paesaggio circostante, in tensione dialettica con la contemporaneità, furono di grande ispirazione per la mia filmografia degli esordi.
Le mie trilogie non sono mai simmetriche, sono triangoli irregolari: in House (1980), Wadi (1981) e Diario di campagna (1982) lo sguardo è fisso su un territorio in cui si può osservare la geometria interna del conflitto israelo-palestinese mentre il terzo documentario è un diario, propone un cambio di prospettiva, un movimento. La trilogia successiva abbraccia paesi diversi: Ananas (1983) segue il viaggio di una lattina di ananas prodotta nelle Filippine, imballata a Honolulu, distribuita a San Francisco e la cui etichetta è stampata in Giappone. In Bangkok-Bahrein (1984) le merci sono gli esseri umani: le donne thailandesi nell’industria del sesso di Bangkok e i loro uomini come forza lavoro a basso costo in Bahrein. La terza parte, Marlboro, avrebbe dovuto incentrarsi sulla giustapposizione tra un prodotto e la sua immagine ma per le ragioni che spiego in Surgeon General’s Warning (2001) non sono mai riuscito a concluderla.
Brand New Day (1987) documenta la tournée giapponese degli Eurythmics per dimostrare come l’industria della musica ricicli rumori e suoni integrandoli in un nuovo prodotto musicale. Nello spazio sonoro nipponico la band registrava suoni nei templi buddisti, in metropolitana, e i rumori delle slot-machine per riformattarli e creare un sound diverso.
Giunto in Europa, avendo deciso di non girare più documentari su Israele finché non vi fossi tornato, volevo realizzare un film di finzione e subito pensai al libro di Ester. Da sempre le comunità ebraiche disperse per il mondo, a ogni latitudine e sotto ogni regime, lo esplorano come un surrogato della terra lontana. Perché non farlo anch’io, perché non partire dalla storia di Ester, che mi offriva la parabola che mi serviva per il mio film, un’angolazione indiretta per guardare la realtà?
Amo sovvertire le mitologie esistenti e le verità consolidate. Nella memoria collettiva, la storia di Ester è quella della vittoria di un popolo oppresso che si affranca dall’oppressore, ma si dimentica, spesso, il finale, la vendetta non necessaria. Con il mio film volevo ricordare come si conclude la storia e mettere in discussione il circolo vizioso della vendetta, il continuo scambio di ruoli tra oppressi e oppressori.
Ester è anche l’unico testo dell’Antico Testamento che si svolge interamente nell’antica Persia, è una storia della diaspora che, nel film, è trasposta nella realtà e nel paesaggio di Israele. Girai gli interni a Wadi Salib, un quartiere di Haifa pregno di significato e di ricordi, e gli esterni, le mura della città, a San Giovanni d’Acri, creando una città composita le cui strade tortuose sono quelle di Wadi Salib, una sorta di archivio visivo del quartiere arabo-musulmano che le autorità cittadine vorrebbero veder scomparire per cancellarne l’esistenza dalla nostra memoria.
Esther è stato girato in ebraico e in arabo, Golem, lo Spirito dell’Esilio (1992) soprattutto in francese e Berlin-Jerusalem (1989) in ebraico e in tedesco, il che conferisce alle pellicole una valenza completamente diversa anche se hanno in comune il riferimento al testo.
Non si tratta di un adattamento ma di un’interpretazione, nel senso dell’espressione interpretato da che si usa per gli attori. In pieno spirito talmudico, vuol dire mettere in discussione vecchi significati e crearne di nuovi, mettere in luce le contraddizioni.
I testi arcaici contengono le primissime riflessioni dell’umanità su questioni universali, l’etica, il desiderio, la natura umana, messe per iscritto all’inizio dell’età del ferro e ancora valide oggi. Perché liquidarle come testi religiosi?  Perché non usare il cinema, un mezzo moderno, per interpretarle?
I miei tre film sul tema del Golem, Naissance d’un golem: Carnet de notes (1990), Golem, lo spirito dell’esilio (1992) e Golem, le jardin pétrifié (1993) sono mie annotazioni sui testi arcaici ispirate dall’osservazione della società europea, russa, francese… È il mio modo di meditare su un testo di cui conosco le origini, sradicandolo e portandolo in una realtà altra, una società che conosco meno perché sono straniero, e riflettere su di essa attraverso una parabola.
Per me c’è un legame tra Golem, lo spirito dell’esilio e la prima parte di Disimpegno (2007). Entrambi i film traspongono l’esperienza contemporanea in termini meta-storici e conferiscono un valore musicale e una bellezza filmica a un vuoto inquietante. Comprendo che possano urtare la suscettibilità di qualche spettatore o esser visti come una minaccia nel loro essere una rappresentazione non naturalistica e non didascalica dell’Europa. Disimpegno, per esempio, evoca una forma di impotenza maschile che crea una forma di isteria femminile. L’impotenza del fratello. In maniera lucida, quasi ieratica, questi film dicono: io ti vedo così. Sono storie forti e può accadere che gli spettatori si turbino di fronte a queste scene, o siano a disagio riconoscendo, all’inizio di Spirito dell’esilio, la storia di Davide e Golia nel contesto europeo, o il discorso biblico contro l’ingiustizia e lo sfruttamento dei poveri. Contrariamente al Medio Oriente, dove i conflitti sono palesi e visibili, nelle società europee queste correnti serpeggiano in modo non manifesto, covano come braci sotto la cenere.
Kadosh (1999) si discosta dai film precedenti perché non parte da un testo in particolare, ma dalla riflessione sul senso stesso del rituale religioso, su come si chiude su sé stesso pretendendo di conoscere la verità assoluta e respingendo qualunque altra opzione. Detesto questo mal posto senso elitario di superiorità, l’arroganza nei confronti della modernità. Da cittadino israeliano, non voglio che il fondamentalismo guadagni terreno e, come in molti altri miei film, affermo il mio punto di vista sul conflitto israelo-palestinese.
Ho iniziato a lavorare sul Golem perché è un mito molto attuale, la storia della relazione tra l’umano e ciò che l’umano realizza.
Parla di noi.

Un uomo si reca alla riva del fiume. Ha molti problemi nella vita e nella sua comunità. Deve affrontare i suoi nemici, la miseria, i problemi economici…
Si reca al fiume per praticare una magia…

È una combinazione matematica per creare un essere artificiale in grado di combattere la natura, i nemici, l’odio, la miseria.
In fondo, è l’origine della nostra civiltà: da sempre gli umani cercano strumenti per controllare la natura, coltivare campi anche quando non piove, espandersi, sconfiggere i nemici, costruire case, provvedere a sé stessi. Il mito del Golem non è altro che il processo di creazione di un manufatto e della complessa relazione dialettica che si instaura tra l’essere umano e l’essere artificiale che costruisce.
I miei film sul Golem e quelli sulle multinazionali sono opere sulla globalizzazione ante litteram.  Nell’ultima parte della trilogia del Golem, il Jardin pétrifié, il Golem è l’Urss.
Il comunismo totalitario crea un regime che, come il Golem, crolla rovinosamente sull’umanità. Questa è l’impressione che ebbi a Leningrado, vedendo costruire enormi dighe per deviare il corso dei fiumi e che furono abbandonate a metà dopo le catastrofi naturali provocate dai lavori.

L’uomo, sulla riva del fiume, attraverso una combinazione cabalistica di parole, significati e lettere riesce a creare un essere artificiale… che lo aiuterà nei lavori manuali.

Un robot, Frankenstein, una macchina ma, trattandosi di una storia ebraica, per farlo funzionare è necessario che…

Scriva il nome di Dio su un pezzo di carta e lo infili nella bocca del Golem e ogni venerdì sera lo rimuova così che il Golem possa riposare durante lo Shabbat.

È come una scheda elettronica o un computer dell’epoca. E il fatto che serva un testo, un codice per attivarlo è incredibile se si pensa che la versione più antica conosciuta del Golem risale al III secolo.

Ma un venerdì sera dimentica…

Il caso, nulla di premeditato, di programmato.

Dimentica di rimuovere il pezzo di carta e il Golem diventa incontrollabile, comincia a distruggere tutto, mettendo a ferro e fuoco la comunità con estrema violenza…
È questo il nostro rapporto con la tecnologia, con le catastrofi naturali e con le macchine sofisticate che creiamo e che finiscono col distruggerci. Ci soffocheranno se non riusciamo a togliere la scheda per disattivarle al momento giusto.

La storia del Golem ha due finali. In una versione il rabbino riesce a rimuovere il pezzo di carta e calma il Golem, nell’altra, nel tentativo di rimuovere il pezzo di carta su cui è scritta la parola “emet” che significa “verità”, riesce a strappare solo la lettera “e”, lasciando dentro “met” che significa “morte”. E il Golem gli crolla addosso e lo uccide nella caduta.
L’essere artificiale distrugge l’umanità.
Ce la farà l’umanità a mantenere il controllo sull’essere artificiale, il Golem che lei stessa ha creato o ne sarà distrutta? Forse il Golem smetterà di funzionare, ma a costo della morte dell’umanità?
Non è un caso che io abbia lavorato ai film sul Golem in parallelo con Ananas e Bangkok Bahrein, due film che offrono una visione globale, non solo una storia ebraica.
Trasferendo la leggenda del Golem a Parigi o in Russia, metto in evidenza la mescolanza della realtà europea.
Golem, lo spirito dell’esilio attinge anche al libro biblico di Rut, la storia delle origini della casa di Davide. Rut, la bisnonna di Davide, non era ebrea ma moabita e l’Antico Testamento non la esclude, anzi legittima l‘ibridazione culturale, il modo non puro in cui nacque il regno.
Il filo che unisce Golem, lo spirito dell’esilio a Berlin Jerusalem risale ai film realizzati sul tema dal cinema espressionista tedesco, di cui uno dei più riusciti è quello di Paul Wegener il quale, in seguito, dopo essere stato protagonista di una storia ebraica, divenne un attore nazista. In un certo senso, diventò lui stesso un Golem.
Non sorprende che tutto sia iniziato in Germania, perché a Berlino fu forte l’impatto dell’urbanizzazione e della rivoluzione industriale. Crescendo in modo disorganico, la città divenne una base per persone provenienti da tutto il continente, accogliendo le culture urbanistiche dell’Europa orientale, la russa, l’ebraica, l’olandese. Era un vero crogiolo di culture che aveva bisogno di un mito fondatore. Gli espressionisti scelsero il Golem, una storia antichissima, rimasta silente per centinaia di anni e che assunse un nuovo significato nella modernità. Nel periodo in cui girai la trilogia del Golem vivevo soprattutto in Europa, sempre in cerca di temi e materiali con i quali potessi mantenere il mio rapporto ambiguo con la questione israeliana, sentendomi in sintonia e al tempo stesso distante. Non è un caso che l’ultima parte, Jardin pétrifié, sia ambientata a Giaffa, il luogo dove, seguito, ho girato due film della trilogia successiva, Inventario (1995) e Kadosh, una volta tornato in Israele.
Nei miei film ci sono degli elementi ricorrenti: brani musicali, dialoghi, testi… C’è una dimensione ossessiva nel lavoro creativo, basti pensare a Andy Warhol, Cézanne, Joyce, Bach…
Il creatore, usando gli strumenti propri del suo mezzo espressivo, prova a definire un linguaggio in grado di codificare ciò che si ripete di volta in volta, in un numero infinito di variazioni sul tema, e di ascoltare, anche in un quadro o un testo, l’effetto prodotto da un particolare ingrediente. Nei miei film, come in un esperimento di chimica, da creatore osservo l’impatto che un elemento importante per me, una voce, un’immagine, un testo, ha sui termini generali dell’equazione.
Un film è come un’equazione matematica in cui si invertono i termini, le variabili danzano l’una intorno all’altra, si cambiano di ruolo e creano nuovi significati. Alcuni elementi sono costanti ma, posti in un contesto nuovo, si ritrovano messi in discussione. Riappaiono di continuo, lasciando sempre una traccia di sé, conferendo un tono e un colore alle situazioni diverse in cui si ripetono.
Per esempio, il brano dell’Ecclesiaste Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo, che canta Hanna Schygulla nello Spirito dell’Esilio, risuona anche nell’ultima scena di The Arena of Murder (1996), quando un’auto attraversa lentamente la piazza dove fu assassinato Yitzhak Rabin, come una meditazione arcaica sulla scena di un omicidio dall’enorme portata storica e politica. Lo stesso testo è citato per la prima volta in Metamorfosi di una melodia (1992), in La guerre des fils de lumière contre les fils des ténèbres (1993), in Kippur: memorie di guerra (1997) e in Terra Promessa (2004), nel momento in cui esplode la bomba.
Per me si tratta di un testo intimamente connesso a Israele e alla questione della costruzione di un’immagine utopica.
In Berlin Jerusalem assistiamo a una sorta di trasformazione poetica, una sovrapposizione quasi iconoclastica di Berlino e Gerusalemme. Non si può affrontare la questione di Israele senza vedere la giustapposizione costante tra l’immagine utopica di Israele, moderna, religiosa e politica – la Giudea, quel particolare territorio e ciò che rappresenta nella storia dell’umanità – e gli eventi contemporanei. C’è sempre una discrepanza, una tensione tra il territorio reale e il progetto… O meglio, la nostra proiezione mentale su quel territorio.
I film più potenti cominciano quando finisce la proiezione. Il cinema è un’arte che si manifesta e si fruisce, in genere, in luoghi poco ameni, con sedute scomode e schermi non sempre ottimali. Eppure, quando si fa buio in sala e comincia la proiezione, per un’ora e mezza o due, siamo immersi in un altro universo di immagini, suoni, testi, dialoghi, volti. Alla fine, quando le luci si riaccendono, ci ritroviamo di nuovo in quegli ambienti poco invitanti. Contrariamente alla scultura, alla pittura o a un libro, il film non lascia alcuna traccia concreta dietro di sé, lascia solo un ricordo, una suggestione, un’impressione nella nostra mente. È un’arte altamente astratta che esiste solo quando viene riprodotta perché, in fondo, non è altro che la riproduzione di immagini e di suoni. Spesso nei miei film, la scena di apertura funge da camera di equilibrio o di compensazione, uno di quei luoghi di passaggio dove, entrando, si può riflettere sullo spazio che si è appena lasciato, la biglietteria dove si compra il biglietto o l’ingorgo che si è attraversato prima di arrivare. Consente a ognuno di comprendere che sta entrando in un altro spazio, uno spazio mentale uditivo e iconografico diverso. È un deliberato atto di separazione tra l’esperienza appena vissuta e quella che si sta per vivere; che si tratti di Esther, Berlino Gerusalemme, i Golem, la trilogia delle città, la trilogia delle frontiere, Kedma, Kippur, Eden o Disimpegno, la scena di apertura consente di separare il prima dal dopo. La scena finale, prima che si riaccendano le luci, per me è l’ultima chance per dire qualcosa, insinuare un dubbio, prolungare un’atmosfera o una sensazione, come se volessi che il film continuasse, fosse più esplicito, fornisse la chiave di un enigma o le risposte ai quesiti visivi, estetici, formali, politici posti dalla storia. I miei finali sono quasi sempre aperti, nel rifiuto di una lettura definitiva del film.
In Esther, che aderisce rigorosamente al testo biblico, come gesto finale ho voluto inserire le origini dei miei attori per gettare, retrospettivamente, una luce diversa su alcuni elementi del film. Chi sono questi attori? Simone Benyamini è nata a Beersheba, in Israele, di origini irachene e marocchine, in seguito si è trasferita al Nord, e ciò che la colpisce di più di questo paese è luce del sole. Shmuel Wolf, il narratore nel film, è nato in Ungheria, fu deportato con la sua famiglia, giunse in Israele nel 1949 e dovette imparare una nuova lingua. L’eunuco Hatac è interpretato da David Cohen l’Orientale, nato ad Alessandria, considerato un ebreo per tutta la sua giovinezza, quando arrivò in Israele fu scambiato per arabo e trattato come un paria, proprio come lo erano tutti gli eunuchi. Juliano Mer-Khamis, figlio di un palestinese e di un’ebrea, entrambi impegnati politicamente, che hanno fatto della loro vita privata un gesto di riconciliazione. Ci sono riusciti?  La questione è ancora aperta. Questo figlio di un matrimonio misto che rappresenta la coesistenza (o la non coesistenza) di ebrei e arabi, recita il ruolo del cattivo Haman. E Mohammad Bakri, il grande attore palestinese nato a Bana, in Galilea, interpreta il ruolo tradizionale dell’ebreo Mordecai. Insieme, il cast rappresenta uno dei possibili puzzle della realtà israeliana. Sarebbe stato un errore concludere un film-parabola senza fare riferimento al contesto contemporaneo e a come ognuno di noi è parte di un paesaggio umano. Nella scena finale, le biografie degli attori diventano parte integrante dei molteplici significati del film, sollevano quesiti invece di fornire chiavi interpretative, in una sequenza lunga nove minuti e 38 secondi che mette insieme le rovine del quartiere, i volti degli attori e le loro storie autobiografiche. Come un capitolo non scritto del libro di Ester, in una legittima interpretazione moderna del testo arcaico che dà modo a chi non lo ha letto di scoprirne il ritmo, l’ineffabile bellezza, la semplicità e le tematiche di ordine etico che ancora ci interrogano.

Estratti Rassegna Stampa

«Nella nostra compagnia, che è anche un microcosmo di umanità, convivono attori di nazioni in guerra: israeliani, palestinesi e iraniani, che hanno imparato a conoscersi e a coltivare rapporti nel segno dell’amicizia». 
(Intervista a Amos Gitai di Luciano Giannini, «Il Mattino Napoli», 18/06/25)

«L’arte è atto civico: non può cambiare la realtà nell’immediato, ma può imprimere una traccia. Dobbiamo lavorare – prosegue – per capire come possa vincere un movimento che vada verso la riconciliazione». 
(Intervista a Amos Gitai di Bianca De Fazio, «la Repubblica Napoli», 18/06/25)

«La relazione interpersonale, quasi intima, tra gli attori, una persona di fronte all’altra, è più importante dei proclami politici sbandierati prima di uno spettacolo: anche la relazione tra individui può essere un piccolo atto di resistenza». 
(Intervista ad Amos Gitai di Natascia Festa, «Corriere del Mezzogiorno Napoli e Campania», 18/06/25)

«Nello spettacolo del regista israeliano il popolo ebraico diventa il simbolo di tutti i migranti in cerca di una patria e di tutti coloro che vengono perseguitati in quanto «diversi», ovvero appartenenti a minoranze etniche o religiose. E ne deriva che il testo, firmato dallo stesso Gitai e da Marie-José Sanselme, si scaglia con sacrosanta veemenza contro i “concetti che inscatolano le persone. Cristiano. Musulmano. Ebreo. Bianco. Nero. Cristiano. Musulmano. Ebreo. Cattolico. Arabo. Nero. Uomo con la u minuscola. Eterosessuale. Omosessuale. Donna. Donna nera. Donna bianca. Meticcia”. Finché il personaggio che parla dichiara: “Sono una donna, prima di tutto”».
(Redazione, Controscena, 18/06/25)

Promozioni attive su questo spettacolo