Il rito è un film scritto e diretto da Ingmar Bergman nel 1969, il primo direttamente realizzato per la televisione svedese. È una sorta di cinema da camera, girato tutto in interni con soli quattro personaggi in atto. Il film è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica. Tre attori di teatro, sorta di clowns contemporanei d’avanguardia sono stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Il giudice censore Abrahamsson, a cui è affidato il caso, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui con gli artisti – in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni dei rapporti tra i tre attori, oltre che la discutibile natura dello stesso giudice – l’uomo non riesce però a farsene una idea chiara e chiede di assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, alla fine della quale subirà conseguenze fatali. La performance dei tre clowns è una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. Ma oltre la censura – subita spesso da Bergman ai suoi tempi, e che oggi striscia in maniera sempre meno latente tra le pieghe più varie del nostro vivere sociale – nel testo è forse ancora più centrale il tema della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della morte.
Il rito, oltre ad essere un tracciato umano raccontato dall’autore attraverso l’immagine filmica, è soprattutto una partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi, che ha la piena possibilità di essere ri-suonata e animata nella cornice di uno spazio scenico teatrale.