La produzione delle commedie di Shakespeare è caratterizzata da una forte componente popolare: un linguaggio e una forma artistica capaci di rivolgersi a un pubblico ampio, in grado di cogliere sensazioni e significati anche al di là della comprensione intellettuale. Il teatro shakespeariano ha conosciuto fortuna nelle riduzioni oratoriali dell’Ottocento e del Novecento, con traduzioni ispirate al melodramma italiano e allo stile dei libretti verdiani. Lo stesso Giuseppe Verdi si è confrontato con Shakespeare in opere come Macbeth, Otello e Falstaff. In questa messinscena, Mariano Bauduin propone una lettura che fonde elementi della tradizione elisabettiana con quelli del teatro popolare. Lo spazio scenico immaginato richiama un Globe Theatre effimero, sorto in un bosco fantastico, mentre i personaggi – tutti interpretati da uomini – rievocano la farsa carnevalesca e il teatro parodico, in un chiaro richiamo alla comicità grottesca e al varietà. Falstaff è il fulcro della narrazione: figura vitale e ambigua, incarna una saggezza popolare che accompagna il giovane Enrico V nel suo percorso di formazione. Shakespeare, ispirandosi alla figura storica di Oldcastle, ne fa un personaggio simbolico, capace di collegare il re al suo popolo e di rappresentare l’umano nella sua complessità. A questa dimensione si unisce il regno delle fate, simbolo di castità e ordine morale, legato alla propaganda elisabettiana. Le scene fantastiche evocano anche tradizioni popolari italiane, in particolare i riti dei benandanti friulani, mostrando corrispondenze sorprendenti tra culture distanti.
Lo spettacolo si configura come l’ultima notte di Falstaff, un sogno febbrile in cui il personaggio ripercorre la propria vita tra gioia e paura. La sua morte diventa un rito poetico che celebra l’immaginazione e segna la fine dell’innocenza, nel solco di un teatro che esplora con profondità il cuore umano.












