Antonio Latella porta in scena Riccardo III, tragedia sull’ascesa al potere del duca di Gloucester ed esplorazione della natura del male. Nelle sue note di regia, Latella afferma: “Il male è. Non è una forma, una gobba, una deformità. È vita, natura, divinità”. Il suo intento è superare l’esteriorità del male per coglierne il fascino. La rappresentazione fisica della malvagità diventa quasi un alibi che oggi, nel XXI secolo, è forse non più accettabile. Ma Shakespeare usò una “maschera corporea”, simile a quella di un fool, figura ambigua e simbolica, per precise ragioni storiche e concettuali.
In alcuni Paesi, l’opera viene rimossa dai cartelloni per rispetto verso la disabilità fisica. Il rischio, secondo Latella, è che il politically correct porti a una censura che snatura l’opera. Al centro del lavoro vi è il potere della parola, la sua seduzione, persino la sua scorrettezza: “Il serpente incantò Eva con le parole”, ricorda il regista, sottolineando che il male risiede nella bellezza e nell’armonia, non nella disarmonia. Riccardo III incarna il male seduttivo, dominatore, soprattutto verso il femminile, che alla fine sarà proprio ciò che lo sconfigge.
La traduzione di Federico Bellini offre un ritmo iniziale quasi da commedia wildiana. L’adattamento rispetta l’anima dell’opera, pur con alcune modifiche. Una novità è il personaggio del Custode, servitore apparente di Riccardo e del male, ma in realtà difensore della bellezza e del giardino dell’Eden.
Fondamentale è stata anche la scelta del cast, selezionato con cura maniacale per valorizzare la forza performativa della parola shakespeariana. Latella conclude chiedendo ai suoi collaboratori di rendere il male seduttivo, perché “chi tradì il paradiso fu l’angelo più bello”.